Alberghi/ristoranti, sanità e commercio: lavoro anche a Pasqua e Pasquetta per 5 milioni di italiani

Secondo le previsioni, oltre 11 milioni di italiani approfitteranno del ponte pasquale per concedersi alcuni giorni di svago. Mentre molti potranno recarsi al mare, in montagna o visitare una o più città d’arte, non si può ignorare che un numero significativo di persone sarà costretto a lavorare anche durante questo periodo festivo. Dall’elaborazione dell’Ufficio studi CGIA su dati Istat si stima che tra la domenica di Pasqua e il lunedì dell’Angelo dovranno recarsi sul luogo di lavoro fino a poco più di 5 milioni di italiani.

Un impegno che riguarda tutte quelle persone che lavorano anche nella stragrande maggioranza degli altri giorni festivi dell’anno, perché sono impiegate in settori che non possono chiudere le attività: come il turistico/ricettivo, l’informazione/comunicazione, l’intrattenimento, l’agricoltura/allevamento, il commercio/esercizi pubblici, i trasporti, la sanità, l’industria con produzioni a ciclo continuo e la sicurezza/ordine pubblico. Di questi 5,1 milioni, 1,3 sono lavoratori autonomi (agricoltori, allevatori, ambulanti, artigiani[1], commercianti, esercenti, etc.) e gli altri 3,8 sono lavoratori dipendenti[2].  Negli ultimi dieci anni, a seguito della liberalizzazione degli orari di apertura/chiusura delle attività commerciali introdotta dal governo Monti, il numero dei lavoratori impiegati durante le giornate festive è aumentato costantemente. Gli ultimi dati riferiti al 2023 ci dicono che il 25,8 per cento del totale degli autonomi alza la saracinesca della propria attività anche nei giorni di festa, mentre tra i dipendenti la quota di chi si reca al lavoro alla domenica e nelle altre festività è al 20,4 per cento (vedi Graf. 1).

  • Soprattutto negli alberghi/ristoranti, sanità e commercio si lavora anche a Pasqua e Pasquetta

Secondo i microdati Istat, il settore dove il numero dei lavoratori dipendenti occupati nei giorni di festa è il più alto riguarda gli alberghi/ristoranti con 785.000 unità. Seguono il comparto della sanità/case di cura con 774.500 addetti e il commercio/esercizi pubblici con 689.900 dipendenti. Il totale occupati di questi tre settori è pari a 2.250.000. Se rapportiamo questo importo ai 3.778.700 lavoratori dipendenti totali che secondo il nostro istituto di statistica lavorano nei giorni festivi, l’incidenza è del 60 per cento. Va altresì segnalato che la quota di coloro che tra i lavoratori dipendenti è tenuto a lavorare anche la domenica sul totale dipendenti è pari al 20,4 per cento. La percentuale però sale al 70,2 nel settore degli alberghi/ristoranti, al 32 nel commercio/esercizi pubblici, al 25,7 nella Pubblica amministrazione (statali, militari, forze dell’ordine, etc.) e il 24,5 per cento nel settore del trasporto (di merci e di persone) (vedi Tab. 1).

  • Sardegna, Liguria e Abruzzo le regioni con più occupati nei giorni di festa

Dei 3,8 milioni di dipendenti che in Italia lavorano anche durante le feste comandate, la regione che in termini assoluti ne conta di più è la Lombardia con 593.600 unità. Seguono il Lazio con 465.600, il Veneto con 323.400 e l’Emilia Romagna con 287.400. Se, invece, rapportiamo il dato di chi lavora durante le feste sul totale dipendenti, le regioni che presentano l’incidenza più elevata sono la Sardegna e la Liguria entrambe con il 26,9 per cento. Seguono l’Abruzzo con il 24,9 e il Lazio con il 24,4. Secondo la CGIA, questi risultati sono ascrivibili al fatto che rispetto al totale dei dipendenti, quelli del settore alberghi/ristoranti, commercio e trasporti hanno nelle regioni appena elencate una consistenza percentuale molto elevata, cosa che invece non si registra in Veneto, in Emilia Romagna, nelle Marche e in Lombardia che si collocano in coda alla classifica nazionale (vedi Tab. 2).

  • Se ci confrontiamo con i Paesi UE siamo tra gli ultimi

Rispetto agli altri paesi europei, l’Italia si posiziona nella parte bassa della classifica tra chi lavora durante le festività. Se, in riferimento ai lavoratori dipendenti, nel 2023 la media dell’UE a 27 era del 20,6 per cento – con picchi del 38,6 nei Paesi Bassi, 35,8 a Malta, 35,4 in Finlandia e 32,8 in Danimarca – da noi la percentuale si attestava al 20,4 per cento. Al di sotto della nostra soglia segnaliamo il dato della Spagna che era pari al 19,9 per cento e quello della Germania al 14,6 che era il più basso tra tutti Paesi dell’UE (vedi Tab. 3).

  • La lista delle professioni in servizio nei prossimi due giorni

La CGIA, infine, ha stilato l’elenco delle principali professioni che da sempre lavorano anche la domenica; pertanto, molti di loro saranno in servizio domani e, quasi tutti, il lunedì di Pasquetta. Esso è costituito da: addetti ai musei/cinema/teatri/mostre/stadi/concerti e spettacoli vari, addetti al soccorso stradale, addetti alla gastronomia, addetti alla sicurezza privata, addetti alle imprese funebri, agenti penitenziari, agricoltori, albergatori, allevatori di bestiame, ambulanti, animatori turistici, ascensoristi[3], atleti professionisti, autisti, autonoleggiatori con conducente, autotrasportatori[4], badanti, banconieri, baristi, barman, benzinai, camerieri, cassieri, carabinieri, casellanti, chef, colf, commessi, commercianti, cuochi, disc-jockey, edicolanti, farmacisti, ferrovieri, finanzieri, fioristi, fotografi, fotoreporter, gelatai, giornalisti, guide turistiche, infermieri, magazzinieri, manutentori di impianti di riscaldamento/raffreddamento[5], marinai, medici, musicisti, negozianti, operai su impianti industriali a ciclo continuo, operatori ecologici, operatori radio-Tv, panificatori, pasticceri, pescatori, piloti/assistenti/controllori di volo-personale di terra delle compagnie aeree, pizzaioli, poliziotti, portuali, ristoratori, tour operator, tabaccai, taxisti, tramvieri, vigilantes, vigili del fuoco e vigili urbani.

[1] Segnaliamo, in particolare, gli addetti alla gastronomia, gli autonoleggiatori con conducente, gli autotrasportatori, i fioristi, i gelatai, i manutentori di impianti, gli operatori del soccorso stradale, i panificatori, i pasticceri, i taxisti, etc.

[2] Tutti i CCNL riconoscono a coloro che lavorano nelle giornate festive una maggiorazione retributiva. Alcuni di questi contratti, inoltre, prevedono anche il diritto di beneficiare di un riposo compensativo.

[3] Reperibilità h 24.

[4] Nel giorno di Pasqua il ministero delle Infrastrutture e dei trasporti ha disposto il divieto di circolazione dei mezzi pesanti dalle 9:00 alle 22:00. Non sono assoggettati al divieto gli automezzi per il trasporto di prodotti deperibili, generi alimentari, prodotti per uso medico, forniture destinate ad aeromobili e ai servizi indispensabili alle attività della marina mercantile, etc. Previa autorizzazione prefettizia, invece, possono derogare al divieto di circolazione i mezzi pesanti utilizzati per il trasporto di prodotti agricoli, di prodotti dell’industria a ciclo continuo, di attrezzature e materiale per poter partecipare a fiere, mercati, manifestazioni sportive, etc.

[5] Nella stragrande maggioranza dei casi è richiesta la reperibilità h 24.


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Affettività in carcere, la rivolta del Sappe: “Non faremo i guardoni di Stato”

Sta suscitando un acceso dibattito la circolare del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) che introduce linee guida per l’allestimento di spazi dedicati all’affettività all’interno degli istituti penitenziari. In particolare, è il Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria (Sappe) a guidare una protesta formale, con una lettera indirizzata al sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro e al direttore del personale del Dap, Massimo Parisi.

Il segretario generale del Sappe, Donato Capece, definisce “inaccettabile” che al personale penitenziario venga richiesto di assumere ulteriori mansioni, ritenute estranee al proprio ruolo istituzionale. Nella nota si legge: “Non possiamo tollerare che la dignità professionale dei poliziotti penitenziari venga svilita fino al punto da renderli custodi dell’intimità altrui. Noi non ci siamo arruolati per diventare ‘guardoni di Stato’, né accetteremo che tale ruolo venga normalizzato in assenza di un progetto credibile, serio e sostenibile”.

Oltre all’aspetto operativo, la questione tocca anche alcuni elementi più ampi, come la gestione dei detenuti considerati problematici. Su questo punto è intervenuto anche il deputato della Lega Jacopo Morrone, evidenziando come la circolare non escluda in modo chiaro i detenuti con gravi comportamenti disciplinari o ristretti in sezioni speciali, come quelle previste dall’articolo 32. “C’è una sottovalutazione dei possibili fruitori di questo ulteriore benefit”, ha commentato Morrone.

Secondo il parlamentare, la misura rischia di creare ulteriore disagio tra gli agenti, e riflette una visione che non tiene conto della percezione diffusa tra i cittadini, i quali continuerebbero a considerare il carcere come luogo di espiazione, rieducazione e reinserimento, non di benefici affettivi.

La circolare del Dap, d’altra parte, si inserisce in un contesto giuridico e istituzionale più ampio. La Corte Costituzionale ha recentemente sottolineato l’importanza del mantenimento dei legami affettivi e familiari come parte integrante del percorso rieducativo previsto dall’articolo 27 della Costituzione. Tuttavia, l’applicazione concreta di questo principio solleva interrogativi su compatibilità organizzative, sicurezza e sostenibilità per il personale penitenziario.

Il confronto rimane aperto, e il dibattito evidenzia le diverse visioni sul ruolo della detenzione, tra esigenze di sicurezza e tutela dei diritti fondamentali.


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Rischia il carcere per falso in atto di nascita la madre coniugata che impedisce al marito i propri diritti

Dichiarare il falso all’anagrafe al momento della nascita di un figlio può costare caro, anche se si è in fase di divorzio e si invoca il diritto a trasmettere il proprio cognome. Lo ha ribadito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 15138, depositata il 16 aprile 2025, confermando la condanna – ai soli fini civili per intervenuta prescrizione – di una donna che aveva falsamente dichiarato di non essere sposata, omettendo informazioni sul padre del neonato e attribuendogli solo il proprio cognome.

Il caso riguarda una madre, legalmente ancora coniugata, che alla nascita del figlio aveva compilato il modulo destinato ai bambini “riconosciuti dalla sola madre naturale”, affermando di essere divorziata e di non avere più notizie del marito. Una dichiarazione che ha impedito al padre biologico di riconoscere il bambino per oltre tre anni, finché non è intervenuto il tribunale.

Secondo la Suprema Corte, la donna ha agito in maniera consapevole, violando il vincolo matrimoniale ancora in essere e impedendo al padre – che si era anche presentato all’ospedale per la registrazione – di esercitare i propri diritti. In questo comportamento, la Cassazione ha ravvisato una doppia falsità: l’inesistenza del divorzio e l’occultamento volontario della presenza del padre.

L’elemento centrale della sentenza riguarda l’irrilevanza, ai fini penali, della decisione della Corte costituzionale n. 131 del 2022, che ha riconosciuto il diritto dei genitori di scegliere liberamente il cognome del figlio. La Cassazione precisa che questa sentenza non legittima la madre a nascondere l’esistenza del matrimonio né a compiere dichiarazioni unilaterali sull’identità del figlio. Il cognome, infatti, può essere scelto congiuntamente dai genitori o attribuito secondo l’ordine da loro concordato. Diversamente, l’atto risulta irregolare e penalmente rilevante.

La V Sezione penale della Corte ha quindi rigettato i ricorsi difensivi, sottolineando che “alla nuova disciplina non può annettersi alcuna valenza scriminante” e che non sussistono i presupposti per prosciogliere l’imputata. In assenza della prescrizione, la pena prevista sarebbe stata tra 1 e 5 anni di reclusione.

Una pronuncia che fa chiarezza su un tema delicato, ribadendo i limiti entro cui possono esercitarsi i nuovi diritti in materia di filiazione e cognome, e richiamando al rispetto della verità nei rapporti con le istituzioni.


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Nordio tra riforme mancate e resistenze politiche: la giustizia resta in stallo

“Intendiamo rimodulare i presupposti perché scatti la carcerazione preventiva.” Così, due giorni fa, il ministro della Giustizia Carlo Nordio, intervistato da SkyTg24, ha rilanciato l’idea di una riforma delle misure cautelari, ritenendo superate le attuali categorie che giustificano il carcere prima del processo: pericolo di fuga, inquinamento delle prove, e rischio di reiterazione del reato. Un obiettivo ambizioso, ma che appare oggi lontano dalla realizzazione, stretto nella morsa di un contesto politico poco favorevole.

Il tema è tornato sul tavolo ieri alla Camera, durante i lavori della commissione Giustizia. A riaccendere la discussione è stato Tommaso Calderone, capogruppo di Forza Italia, con un’interrogazione in cui ha chiesto al governo quali azioni concrete intenda intraprendere a breve per limitare l’abuso della custodia cautelare. I numeri del ministero della Giustizia parlano chiaro: al 31 marzo 2025, su oltre 62mila detenuti, ben 9.271 erano in attesa del primo giudizio.

Il sottosegretario Andrea Delmastro ha riconfermato l’attenzione del ministro Nordio alla questione, ma ha anche ribadito che ogni iniziativa in materia è nelle mani della Commissione Mura, incaricata di elaborare una proposta complessiva di riforma del processo penale. Tradotto: i tempi saranno lunghi.

Calderone, però, non intende aspettare e ha proposto un’accelerazione sull’iter della sua proposta di legge per modificare l’articolo 299 del codice di procedura penale, eliminando — con le dovute eccezioni per mafia, terrorismo e reati sessuali — la reiterazione del reato come motivo per applicare la custodia cautelare. Una strada già disponibile, ma che non trova slancio politico.

Perché? La risposta sta nei delicati equilibri interni alla maggioranza. La riforma della giustizia è diventata merce di scambio nella partita più grande della separazione delle carriere, considerata una priorità assoluta dal governo Meloni. In questo scenario, le proposte più garantiste — retaggio della cultura giuridica berlusconiana — rischiano di apparire troppo “liberali” per l’elettorato sovranista, mettendo a rischio la compattezza della coalizione e, soprattutto, l’esito del futuro referendum.

Non è l’unica battuta d’arresto. Sempre ieri, la proposta di legge per istituire la “Giornata Enzo Tortora” dedicata alle vittime di errori giudiziari non ha ottenuto il via libera in commissione, incagliandosi nella burocrazia parlamentare. Settimana prossima si deciderà se bocciarla o rinviarla, ma in entrambi i casi il rischio concreto è l’archiviazione.

Un altro fronte caro al ministro è la lotta al processo mediatico. Nordio ha dichiarato di voler intervenire sull’istituto dell’informazione di garanzia e sul registro degli indagati, che da strumento di tutela si sarebbero trasformati in strumenti di condanna preventiva e gogna mediatica. La miccia, in questo caso, è stata probabilmente la pubblicazione delle intercettazioni relative al calciatore Nicolò Fagioli, coinvolto in un’inchiesta sulle scommesse.

Ma l’ambizione di Nordio va oltre. Il ministro vorrebbe mettere mano al Codice Rocco, ancora oggi in vigore, eredità del ventennio fascista. Una revisione che punterebbe a ridefinire i concetti di causalità e le scriminanti, riducendo l’area della perseguibilità penale. Un vecchio pallino del Nordio magistrato, che però oggi si scontra con l’atteggiamento opposto di Lega e Fratelli d’Italia, da sempre inclini ad aumentare i reati per ogni nuova emergenza percepita.

Il risultato? Le spinte riformatrici del Nordio “liberale” si scontrano con il pragmatismo politico del Nordio ministro, costretto a mediare tra ideali e convenienze di governo. A dettare la linea è la necessità di non compromettere il referendum sulla separazione delle carriere, ormai diventato la vera posta in gioco per l’esecutivo. E così, ogni altra riforma della giustizia, per quanto urgente e condivisibile, resta appesa a un filo.


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Fondazione UNCC, il presidente Angelini: “Giustizia civile: innovare senza perdere l’equilibrio”

Virginio Angelini, presidente della Fondazione Unione Nazionale Camere Civili, parla di formazione continua, giustizia digitale, intelligenza artificiale e delle prossime sfide della professione forense. Un’analisi lucida su come traghettare l’avvocatura nel futuro, restando fedeli alla sua missione fondamentale: garantire una giustizia efficiente e vicina ai cittadini.

Presidente Angelini, quali sono gli obiettivi della Fondazione Unione Nazionale Camere Civili?

«La formazione continua degli avvocati è un requisito imprescindibile per far fronte alle costanti trasformazioni normative e giurisprudenziali.

Il ruolo della Fondazione è duplice: da un lato, mettiamo a disposizione strumenti formativi all’avanguardia, con programmi di specializzazione che puntano a temi chiave del diritto civile e interdisciplinari; dall’altro, sviluppiamo momenti di confronto e di ricerca che favoriscono lo scambio di esperienze e di best practice, con l’obiettivo di elevare l’intero livello professionale dell’avvocatura civilista. Siamo impegnati nell’organizzazione di convegni, webinar, workshop tematici, pubblicazioni e progetti di studio, assicurandoci che siano sempre orientati non solo all’aggiornamento, ma soprattutto allo sviluppo di competenze innovative.

Il tema della riforma della giustizia civile è sempre centrale. Qual è la posizione della Fondazione in merito alle ultime novità legislative e quali sono, a vostro parere, gli aspetti che necessitano ancora di interventi significativi?

«La Fondazione UNCC accoglie con favore le novità legislative in materia di riforma della giustizia civile, nella misura in cui tali interventi siano fondamentali per rendere il sistema più efficiente, trasparente e vicino alle esigenze dei cittadini. In particolare, la spinta verso la digitalizzazione e la semplificazione dei procedimenti rappresenta un passo avanti significativo, capace di ridurre i tempi e i costi della giustizia, nonché di rendere più agevole la comunicazione tra gli operatori del diritto e le parti in causa.

Vi sono ambiti che necessitano di interventi incisivi?

«Primo fra tutti, è essenziale garantire un’adeguata formazione e un costante aggiornamento professionale per tutti gli attori del processo: magistrati, avvocati e personale amministrativo. Solo in questo modo le innovazioni legislative potranno tradursi in prassi operative efficaci, evitando disparità di interpretazione o di applicazione della norma.

Un secondo aspetto cruciale riguarda l’implementazione di misure che favoriscano la definizione stragiudiziale delle controversie, come la mediazione e l’arbitrato. Questi strumenti, se integrati in modo organico e sostenuti da incentivi concreti, possono contribuire in maniera rilevante alla riduzione dell’arretrato, liberando le corti da un carico eccessivo di cause.»

«La Fondazione UNCC, in linea con la propria missione, sostiene la necessità di proseguire su questa strada e si impegna a promuovere attività di studio, formazione e confronto per accompagnare e supportare al meglio l’evoluzione del nostro sistema di giustizia civile.»

Quali sono, a suo avviso, le principali sfide e opportunità che l’avvocatura civile sta affrontando in questo momento storico?

«La Fondazione UNCC guarda con interesse all’intelligenza artificiale, consapevole che rappresenti una rivoluzione tecnologica di grande impatto nel settore legale e che possa offrire importanti opportunità per la professione forense. In particolare, l’AI può favorire un’accelerazione dei processi di ricerca giuridica e analisi documentale, contribuendo a ridurre i tempi di elaborazione degli atti e liberando risorse che gli avvocati possono dedicare ad attività di maggior valore, come l’approfondimento giuridico e il rapporto diretto con i clienti.

Tuttavia, l’introduzione delle nuove tecnologie comporta anche alcune criticità da non sottovalutare.

«In primo luogo, è fondamentale assicurare la correttezza e l’affidabilità degli algoritmi: le soluzioni basate sull’AI devono essere trasparenti, prive di bias e costantemente verificate da professionisti competenti. In secondo luogo, emerge la necessità di una tutela adeguata dei dati e della riservatezza delle informazioni gestite dalle piattaforme tecnologiche, affinché non venga compromesso il segreto professionale. Infine, occorre evitare che la spinta verso l’automazione si traduca in una standardizzazione eccessiva delle soluzioni legali, a scapito della qualità del servizio e della personalizzazione dell’assistenza.

La Fondazione UNCC ritiene che la chiave per cogliere i vantaggi dell’AI sia la formazione continua: gli avvocati devono acquisire competenze digitali avanzate e saper valutare in modo consapevole le potenzialità e i limiti di questi strumenti. La Fondazione, pertanto, continuerà a promuovere iniziative di studio e confronto per accompagnare la trasformazione tecnologica e garantire che l’innovazione rimanga al servizio di una giustizia civile sempre più efficiente e vicina ai cittadini.»

Si può tentare un bilancio di questa prima fase “pioneristica” di introduzione della digitalizzazione nel processo civile?

«La digitalizzazione del processo civile ha già fornito risultati tangibili in termini di velocità e tracciabilità degli atti, offrendo strumenti come il deposito telematico, la consultazione online dei fascicoli e la possibilità di gestire alcune fasi del procedimento a distanza. Questi progressi hanno contribuito a ridurre i tempi e i costi amministrativi, rendendo il lavoro degli avvocati e l’operatività dei tribunali più efficienti. Tuttavia, il bilancio complessivo è ancora caratterizzato da alcune criticità che devono essere affrontate con urgenza.

In primo luogo, è necessario potenziare le infrastrutture tecnologiche su tutto il territorio nazionale, per garantire uniformità di servizi e ridurre gli episodi di malfunzionamento o rallentamento dei sistemi telematici. In secondo luogo, è indispensabile semplificare ulteriormente le procedure e migliorare le interfacce informatiche, affinché siano realmente intuitive e accessibili a tutti, compresi i professionisti meno avvezzi all’uso di strumenti digitali. Inoltre, un passaggio cruciale è rafforzare la sicurezza dei dati e la tutela della riservatezza, sia attraverso protocolli adeguati sia tramite la formazione specifica del personale e degli operatori.

Infine, è opportuno avviare una riflessione seria sulle potenzialità dell’intelligenza artificiale, valutandone l’impiego come supporto nella gestione dei fascicoli, nell’analisi documentale e in altre attività a elevato contenuto ripetitivo, senza mai perdere di vista la garanzia di un processo giusto e rispettoso dei diritti di tutte le parti.»

«La Fondazione UNCC continuerà a svolgere un ruolo attivo in questo percorso, promuovendo momenti di confronto e progetti di ricerca che possano consolidare e ampliare i risultati raggiunti, nella prospettiva di costruire un sistema di giustizia civile sempre più moderno, efficiente e al servizio del cittadino.»

Quali sono i progetti futuri della Fondazione in agenda?

«Ci stiamo focalizzando su tre grandi direttrici. Partiamo dall’innovazione digitale e formazione a distanza: la pandemia ci ha insegnato l’importanza di poter contare su piattaforme di e-learning efficaci, che consentano di seguire corsi, seminari e tavole rotonde anche da remoto, garantendo una fruizione flessibile e inclusiva. Svilupperemo ulteriormente i nostri strumenti digitali per rendere più accessibili e personalizzati i percorsi formativi. Importanti sono le collaborazioni interistituzionali: stiamo rafforzando la rete di partnership con università, centri di ricerca e associazioni specialistiche, al fine di offrire opportunità di studio e di scambio di elevato profilo. Vogliamo mettere in contatto avvocati, docenti universitari e esperti del settore per promuovere un dialogo costruttivo e sempre aggiornato. Coltiveremo la formazione di profilo internazionale: l’avvocato civilista oggi deve essere sempre più in grado di interagire con contesti e normative sovranazionali. Intendiamo avviare progetti che guardino alle esperienze estere più virtuose e che aprano canali di confronto con professionisti di altri Paesi, anche attraverso percorsi di specializzazione mirati.»

Di fatto alimenterete una cultura della formazione continua che non sia vista come un mero obbligo deontologico.

«Vogliamo creare opportunità di crescita, che elevino non solo il singolo professionista, ma l’intera comunità degli avvocati civilisti. Siamo convinti che, così facendo, contribuiremo a rendere l’avvocatura civile più solida, autorevole e attenta alle esigenze di una società in continua evoluzione.»


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Incontro Nordio, ANM: “Basta offese e toni di scherno”

“L’incontro con il ministro Nordio è stato un momento di franco confronto al quale abbiamo partecipato con l’aspettativa di avviare un dialogo costruttivo sui temi dell’efficienza. Poiché nessuna interlocuzione può essere realmente proficua, se manca la fondamentale condizione del reciproco rispetto, confidiamo che finalmente cessino offese e toni di scherno ancora indirizzati all’ANM. Abbiamo esposto alcune gravi criticità del sistema giudiziario (come le perduranti disfunzioni degli applicativi informatici, le gravi carenze degli organici di magistrati e personale amministrativo, la solo parziale stabilizzazione degli UPP, le preoccupanti conseguenze della nuova causa dell’improcedibilità nel processo di appello, il sovraffollamento carcerario, la razionalizzazione delle circoscrizioni giudiziarie) che riteniamo abbiano prioritaria rilevanza al fine di garantire un servizio all’altezza delle aspettative dei cittadini tutti”. Lo afferma in una nota la Giunta esecutiva centrale dell’Associazione nazionale magistrati.

“Con favore registriamo che il Ministro si sta adoperando per aprire sei nuove residenze per l’esecuzione di misure di sicurezza (REMS), in quanto le strutture attualmente disponibili sono del tutto insufficienti per garantire un adeguato trattamento nei confronti degli imputati affetti da problemi psichiatrici. Così pure apprezziamo l’attenzione mostrata sulla necessità di apportare significative modifiche al ddl sul femminicidio e rimeditare le norme che estendono l’applicazione del rito collegiale e vietano al Pubblico ministero di avvalersi della polizia giudiziaria per raccogliere le dichiarazioni della vittima”.

“Su tutte le altre fondamentali questioni da noi segnalate, dobbiamo però constatare, che il Ministro, pur consapevole della loro assoluta centralità e della piena correttezza dei dati posti a fondamento delle nostre richieste, non ha assunto impegni concreti, adducendo che l’amministrazione non ha le risorse necessarie per effettuare gli interventi indicati, sebbene sia pronto a realizzare una riforma costituzionale dai non trascurabili costi di attuazione che non servirà ad ottenere processi più rapidi. Tale posizione è però motivo di vivo rammarico, perché conferma il timore secondo cui a livello politico non esiste la volontà di dare ai problemi della giustizia ed alla tutela dei diritti fondamentali il primario rilievo che dovrebbero avere in ogni democrazia evoluta, con il rischio di far ricadere ancora una volta sui magistrati la responsabilità di ritardi e disservizi che non sono ad essi in alcun modo imputabili”.

“Esprimiamo altresì rincrescimento perché non c’è la volontà politica di adottare interventi straordinari ed immediati che pongano rimedio alla drammatica situazione del sovraffollamento carcerario, nonostante la consapevolezza che ciò possa tradursi nella lesione dei diritti fondamentali dei detenuti”, conclude la Giunta.


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Un infermiere di pronto soccorso non è un medico, ma ha il dovere di sorvegliare attivamente anche i pazienti assegnati a un codice verde. A stabilirlo è la Corte di Cassazione con la sentenza n. 15076/2025, che ha riconosciuto la responsabilità penale di un infermiere per il decesso di un paziente in crisi asmatica lasciato in attesa per oltre 45 minuti senza un adeguato monitoraggio e senza l’allerta tempestiva al medico di turno.

L’uomo, affetto da gravi episodi di asma, aveva riferito al personale del triage di avere difficoltà respiratorie. Nonostante ciò, gli era stato assegnato un codice verde, e nessun controllo ulteriore era stato effettuato dopo la prima rilevazione dei parametri vitali. L’infermiere, pur avendo rilevato una respirazione difficoltosa e rumorosa, si era basato esclusivamente sul dato dell’ossigenazione – risultato nei limiti – senza considerare l’aggravarsi delle condizioni o valutare altri fattori di rischio come una possibile allergia.

Un monitoraggio attivo è obbligatorio
Secondo la Corte, il comportamento dell’infermiere ha violato le linee guida per il triage stabilite dalla Conferenza Stato-Regioni del 25 ottobre 2021, che impongono il monitoraggio continuo dello stato del paziente e la rivalutazione della situazione in caso di peggioramento. L’errore è stato ritenuto determinante, perché l’intervento medico – tardivo a causa della mancata allerta da parte dell’infermiere – avrebbe potuto evitare l’esito fatale.

Compiti chiari: osservazione e sollecitazione
La Cassazione chiarisce che, pur non essendo tenuto a formulare una diagnosi, l’infermiere ha il dovere di osservare attivamente i sintomi manifesti o riferiti e di considerare le segnalazioni dei familiari o dei soccorritori. Il suo ruolo non si esaurisce nella semplice raccolta dei dati iniziali, ma include la responsabilità di verificare l’eventuale peggioramento delle condizioni del paziente, anche se classificato come non urgente.

Una lezione di responsabilità professionale
Questa sentenza rappresenta un punto fermo sull’importanza del ruolo degli infermieri nel processo decisionale del triage e nella sicurezza dei pazienti. Il codice verde non deve mai tradursi in un’abdicazione al dovere di vigilanza: la cura inizia fin dal primo contatto, e ogni sintomo può evolversi rapidamente.


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Patteggiamento: anche con l’Eppo valgono le stesse regole del rito alternativo

Il patteggiamento resta patteggiamento, anche se la richiesta di rinvio a giudizio arriva dalla Procura europea. A stabilirlo è la Cassazione penale, con la sentenza n. 14835/2025, che ha respinto il ricorso di un ente non profit imputato per illecito amministrativo legato a fondi comunitari ottenuti indebitamente.

L’ente, accusato ai sensi del Dlgs 231/2001 in relazione a una truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, aveva contestato la validità del patteggiamento sostenendo la violazione del diritto a essere sentiti e del diritto di difesa, come previsto dalla Carta europea dei diritti fondamentali e dalla CEDU. Il ricorso si fondava sul fatto che la Camera permanente della Procura europea (Eppo) aveva espresso parere favorevole all’azione penale senza un previo confronto con la difesa.

Ma per la Suprema Corte non c’è margine di dubbio: l’adesione volontaria al rito alternativo implica la rinuncia consapevole a molte prerogative difensive, compreso il diritto all’interlocuzione con le autorità procedenti, sia esse nazionali che europee.

Nessuna violazione, nessuna possibilità di ricorso
Il patteggiamento, ricordano i giudici, non è impugnabile se non per violazione dell’accordo o per illegalità della pena. Le doglianze dell’ente, che miravano a far rilevare una presunta illegittimità dell’azione penale dell’Eppo e a contestare la qualificazione del profitto illecito, sono quindi risultate inammissibili.

La scelta del rito veloce è una rinuncia consapevole
La Cassazione sottolinea che l’adesione al patteggiamento rappresenta una precisa scelta processuale, che comporta benefici in termini di sconti di pena in cambio della rinuncia al pieno esercizio dei diritti difensivi. Una logica prevista dallo stesso legislatore italiano, in linea con le indicazioni europee che spingono verso processi più rapidi e meno onerosi.

Le stesse regole, anche con la Procura europea
Infine, i giudici chiariscono che, anche in presenza dell’Eppo, le regole del gioco non cambiano: l’azione penale promossa dal procuratore europeo segue le stesse dinamiche di quella del pubblico ministero nazionale. E dunque, se si sceglie di patteggiare, non si può più tornare indietro per lamentare un mancato contraddittorio.

La sentenza rappresenta un chiarimento importante per l’applicazione uniforme del rito del patteggiamento nell’ambito della giurisdizione europea, confermando che la semplificazione processuale comporta inevitabilmente alcune rinunce, anche in presenza di organismi sovranazionali come la Procura europea.


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Braccialetto elettronico non disponibile? Niente automatismi: la Cassazione boccia le misure cautelari più gravi “a prescindere”

Se manca il braccialetto elettronico, non è possibile “rimediare” con una misura cautelare più grave solo per prassi. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 8379 del 2025, annullando un’ordinanza del Tribunale del Riesame di Milano nei confronti di un uomo accusato di atti persecutori.

Il caso ruota attorno alla misura del divieto di avvicinamento alla persona offesa (art. 282-ter c.p.p.), accompagnata dalla prescrizione del braccialetto elettronico. Il Tribunale aveva previsto che, in caso di non fattibilità tecnica del dispositivo, si sarebbe applicata in automatico una misura più afflittiva: il divieto di dimora.

Una clausola ritenuta illegittima dalla Suprema Corte, che ha richiamato la sentenza della Corte Costituzionale n. 173 del 2024: il giudice, di fronte all’indisponibilità del braccialetto elettronico, non può disporre automaticamente misure più gravi. Deve invece procedere a una nuova e puntuale valutazione delle esigenze cautelari, applicando – se del caso – anche misure meno restrittive.

“Stop agli automatismi”
Le Sezioni Unite penali avevano già affermato questo principio con la sentenza n. 20769 del 2016, evidenziando che ogni misura cautelare deve essere valutata in base a idoneità, necessità e proporzionalità. Automatismi – sia in senso peggiorativo che migliorativo – sono contrari alla logica del sistema penale.

Le novità normative del 2025
A rafforzare questa impostazione interviene anche il nuovo art. 7 del D.L. n. 178/2024 (convertito nella legge n. 5/2025), che:

  • Modifica l’art. 275-bis c.p.p., estendendo la verifica della disponibilità del braccialetto anche alla fattibilità operativa;
  • Integra l’art. 276 c.p.p., permettendo la custodia cautelare in carcere solo in presenza di condotte gravi o reiterate che compromettano il funzionamento del dispositivo;
  • Introduce l’art. 97-ter nelle norme di attuazione, disciplinando modalità e tempi dell’accertamento preliminare, demandato alla polizia giudiziaria.

Il principio cardine resta uno: non è l’assenza dello strumento a giustificare automaticamente un aggravamento della misura cautelare. Ogni decisione deve passare attraverso un vaglio concreto e individualizzato, rispettoso dei diritti dell’indagato e dei principi costituzionali.


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Intercettazioni, la stretta della legge Zanettin: garantismo contro efficientismo

È un nuovo terreno di scontro quello che si è aperto tra il Parlamento e la magistratura associata, con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della legge 31 marzo 2025, n. 47 – meglio nota come “legge Zanettin” – che modifica la disciplina in materia di durata delle operazioni di intercettazione. La norma, approvata definitivamente alla Camera il 19 marzo scorso, entrerà in vigore il prossimo 24 aprile, ma già alimenta un acceso dibattito tra garantismo e efficientismo nel processo penale.

La legge introduce un limite massimo di 45 giorni alla durata complessiva delle intercettazioni nel regime ordinario, prorogabile solo se l’assoluta indispensabilità della misura è giustificata da «elementi specifici e concreti», oggetto di «espressa motivazione» da parte del Pubblico Ministero e sottoposti al vaglio del Giudice.

Un passaggio che, secondo la Giunta Unione Nazionale Camere Penali e l’Osservatorio Doppio Binario e Giusto Processo, rappresenta un tentativo chiaro di riequilibrare il sistema investigativo, ponendo un argine all’uso distorto delle intercettazioni e restituendo centralità al Giudice nel controllo della legalità e proporzionalità della misura.

Ma la reazione della magistratura associata è stata tutt’altro che conciliante. Il timore, dichiarato, è che il nuovo termine possa limitare l’efficacia delle indagini preliminari, generando un sistema troppo rigido e asimmetrico rispetto ai tempi lunghi concessi per l’intera fase investigativa.

Una posizione che, agli occhi dei firmatari della nota, tradisce «un’insofferenza verso ogni forma di controllo effettivo del Giudice sull’operato del Pubblico Ministero». È proprio questo, sottolineano, il nodo cruciale: «la novità vera è la richiesta di una reale motivazione, un onere rafforzato che eviti automatismi e garantisca la terzietà del Giudice».

Il nuovo art. 267, comma 3, c.p.p., diventa così uno snodo centrale del bilanciamento tra l’efficacia investigativa e i diritti fondamentali. Non solo dell’indagato, ma anche – e soprattutto – dei terzi estranei ai fatti oggetto d’indagine, sempre più spesso coinvolti da captazioni invasive.

Sul piano sistemico, la legge viene letta come una risposta alle censure della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che, nel 2023, aveva condannato l’Italia per la mancanza di adeguate garanzie rispetto alla privacy di soggetti estranei alle indagini.

Tuttavia, la Giunta solleva anche perplessità su alcuni aspetti della riforma: mancano disposizioni transitorie che chiariscano l’applicazione ai procedimenti già in corso, e restano incertezze sull’ambito temporale entro cui debbano emergere gli elementi giustificativi della proroga.

E poi c’è il rischio opposto: che, mentre si limita il regime ordinario, si continui ad ampliare senza freni quello speciale previsto dall’art. 13 del D.L. n. 152/1991, già esteso a una vasta gamma di reati anche solo “assimilati” alla criminalità organizzata o al terrorismo. Una deriva che alimenta il timore delle “intercettazioni eterne” e di una normativa d’eccezione diventata la regola.

Non è un caso che, dopo che la Corte di Cassazione nel 2022 aveva ristretto l’ambito di applicazione del regime speciale, il legislatore sia prontamente intervenuto con una norma di interpretazione autentica per “riaprire gli argini”.

Secondo la Giunta, serve tornare allo spirito originario delle intercettazioni: uno strumento di ricerca della prova, non un mezzo generalizzato di investigazione preventiva. E l’efficacia delle nuove norme dipenderà in gran parte dalla capacità del Giudice di esercitare pienamente il proprio ruolo di garante, senza “appiattimenti” sulle richieste del P.M., come accaduto in passato anche con le misure cautelari.

In definitiva, la legge Zanettin tenta di ripristinare un equilibrio costituzionale troppo spesso sacrificato in nome dell’efficienza investigativa. Ma per realizzare davvero un processo giusto serve una svolta culturale nella giurisdizione: «un Giudice terzo – si legge nella nota – che non condivida gli scopi del P.M., ma li sorvegli, in nome dei diritti di tutti i cittadini».


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